Io sono niente

Io sono niente.
Io vivo, mi muovo, mangio, parlo, mi lavo, mi vesto, invecchio, penso e faccio scelte, ma resto niente.
Io vivo nel mio mondo, in questo tempo, in questa realtà, con tutte le contraddizioni dell’epoca in cui sono arrivato, e sono comunque niente.
Io percepisco, intuisco e mi lascio fluire, allora sono tutto. Divento tutto. Non decido, agisco e vado dove devo, quindi sono giusto.
Bisogna crearsi tanto silenzio dentro per arrivare a sentire il necessario.
Io non sono niente e sono tutto ciò che devo.
Silenzio, ritmo, forza.
Non è vero che la vita è vuota, non è vero che manca un senso, non è vero che vincono solo il materialismo e la morte, però è vero che siamo attaccati da ogni sorta di distrazione, dentro e fuori. Ed è una tentazione quasi irresistibile lasciarsi condurre dal desiderio di protagonismo e arroganza, perché è meglio della droga sentirsi importanti. Crea più assuefazione.
Ma no.
Vivo e faccio il necessario. Lo dovrebbero fare tutti. Lo faccio e arrivo a essere ciò che devo, dove devo. Il sangue pulsa più denso, l’ansia scivola altrove, il senso delle cose migliora.
Si sviluppa una voce interiore, è limpida e pulita, sa dove devo mirare e nonostante il dolore eseguo. Mi sento triste solo quando non le permetto di parlare, nei momenti in cui mi perdo appresso a quell’io che crede di essere me stesso e invece è solo il riflesso di ciò che lui crede che gli altri pensino di lui. È l’io che fa comparazioni, sente invidia, pretende, distrugge, desidera il male di chi non sopporta, di chi è imbecille, di chi è narcisista (perché anche lui lo è), di chi ottiene successo grazie ai mediocri e alla mediocrità dell’ambito in cui l’ottiene, è un io a cui ho dato un nome, la maschera che indosso nel mondo quando il mondo mi delude: è Nelson Corallo, buon anno figli di putt*na.

cap.1 “Il disprezzo necessario”

Non si parlava di lui ma di lei.

Capelli castani fulvi, riflessi autunnali. Si chiamava Sarah Siepi, lavorava come specialista nel marketing digitale. Nel suo mestiere muoveva file di numeri e algoritmi. Era capace di far convergere l’attenzione del pubblico verso prodotti messi in vetrine virtuali. Aveva la pelle bianca, occhi grandi e castani, mani piccole e indossava un profumo di spezie dolci.Il suo corpo era stato pieno. Di carne, grasso, adipe. Poi improvvisamente svuotato, dopo anni di rotondità. Si era sentita nuova, aveva perso la verginità a ventiquattro anni. Sui fianchi le era rimasta altra carne: tremula, non elastica. Addominoplastica, dodicimila euro e sofferenza fisica atroce per eliminarla. Non aveva speso quei soldi, non ancora. Adesso aveva ventotto anni.

Lui era in piedi nella cucina della villa che aveva preso in affitto. Costruita agli inizi del novecento, una torretta con vetrate colorate, stile belle epoque. Si erano incontrati mesi prima. Gliel’aveva presentata un uomo. Un dignitoso signore in pensione, giacca grigia, sguardo malizioso, “Parlaci – gli aveva detto – Magari poi ti piace, mi sembra una ragazza intelligente, preparata”.

Si trattava di lei ma era lui che aveva vinto una somma. Soldi, una cifra ingente. Avrebbe potuto smettere di lavorare per la tv, per chiunque. Ma si chiedeva se così avrebbe mantenuto un’identità, se a non fare altro che vivere si sarebbe sentito meglio o peggio.

“Un salvadanaio”, pensava a piedi scalzi passando nel soggiorno semi vuoto al piano terra. Luce del pomeriggio in entrata dalla bow window affacciata sul giardino.

Quartiere elegante di città, nascosto tra i palazzi, poco dietro ad una delle arterie più trafficate della metropoli.

“Se la gente vedesse cosa scrivo a parte quella merda, cioè i racconti. Quello che aveva vinto il secondo posto al concorso non era male. Ho bisogno di attenzione, serve un pubblico. È una questione di autorevolezza. Una volta che si accorgono di te, che hai un ruolo, sei autorizzato a parlare. Chi lo dice importa più di cosa dice”.

Sarah Siepi stava in piedi davanti al cancelletto di ferro. Cappotto di stoffa nera. La prima volta che lo aveva visto lui indossava una camicia azzurra.

Se una donna pensa a un uomo non è libera. Una donna non può avere come unico pensiero l’idea di un uomo. Sarah aveva un fidanzato, da anni, e diversi amanti, da qualche mese. Ma era libera dagli uomini. A momenti li disprezzava con voluttà.

Oggi avrebbero parlato, non sarebbe accaduto nient’altro che uno scambio d’informazioni. Ci sarebbero volute delle settimane per il primo amplesso in quella casa. La villa.

“C’è l’attenzione verso i due protagonisti adesso. Un’attesa. Ma non è un romanzo sentimentale. Si parla di fortuna. E del disprezzo necessario per vivere. È uno stile particolare, mi serve per andare avanti. Tra poco loro due si incontrano, si conoscono un po’ meglio. Lui ha dei dubbi ma vuole che lei lo aiuti a far convergere l’attenzione del pubblico sui suoi scritti. La può pagare. Lei invece è in quella fase in cui deve sedurlo per forza. Poi capirà il perché”.

Sarah suonò al citofono della villa. Sentì uno schiocco metallico e camminò lungo il vialetto di pietra verso l’entrata con le colonne doriche. Lui l’aspettava con addosso una tshirt bianca e il pantalone di una tuta amaranto. Non voleva sembrarle elegante.

“Non è un romanzo da quattro soldi. Non è roba commerciale nonostante le premesse. Ho bisogno di farli incontrare così. Poi la questione si sposta. È un maschile e un femminile che si attraggono e poi respingono. L’amore è ancora una forza che trasforma? Credo di sì, ma solo a un livello di consapevolezza altissimo. L’amore non è per gente superficiale. Ecco perché insisto col disprezzo. L’importante è andare avanti adesso”.

C’era un’aria di pretesa in quella stagione di inizio primavera. Le azioni avrebbero anteceduto molti pensieri dell’inverno. E poi negli anni avrebbero capito cos’era accaduto mentre erano lì, giustamente ignari di tutto il resto. L’esistenza è fatta di incontri e, solo dopo, di riflessioni su quanto è accaduto.

Lui voleva l’attenzione del pubblico ma non sapeva ancora cosa volesse comunicare. Lei voleva diventare ricca, forte e rispettata. In seguito le cose sarebbero cambiate.

Incipit “Il disprezzo necessario”

Incipit.

Potrei farvi leggere qualsiasi cosa, spingervi avanti senza fatica, quasi senza rendervene conto. Sono una scheggia quando voglio e se voglio.

Siete già dentro la storia. Mi è bastato andare a capo.

Ancora una volta.

Scrivere per la tv è sia prostituzione che bravura. Non ti dimentichi che esiste la cultura o la bellezza, solo non la contempli nel tuo lavoro, in ciò che fai per vivere, mangiare, pagare le bollette o le vacanze. Ti lamenti? No, è solo piangersi addosso. E la gente che frequenti? Superficialmente frivola ma non lo è. Soffre, ama, crede, lotta, spera esista un Dio o che altro capace di dare un senso profondo alle cose ma come te è costretta a vivere nella realtà. Tutti sognano, che ti credi?

Quinto o sesto capoverso.

Si innamorava intensamente e poi reprimeva ogni impulso dolciastro o piacevole per non diventare sciocco e vulnerabile. Cercava di far durare la sensazione di benessere ormonale il meno possibile, per il minor tempo possibile. Lasciava che le illusioni iniziali si sgretolassero nel giro di poche ore. Si diceva che l’entusiasmo fosse il peggior pericolo a cui potesse andare incontro.

Non credeva nelle critiche dei critici. Per troppo tempo aveva ascoltato i pareri di persone che ne sapevano sicuramente meno di lui. I critici sono artisti falliti. Ma aveva iniziato a dare retta ai consigli dei colleghi su come essere più diplomatico, insomma meno irruento quando diceva un “no”‘.

Il sole di quei giorni, al mattino, mandava raggi calmi e ancora bagnati d’inverno. Poi scaldavano a sufficienza perché le gemme iniziassero a ribollire sotto le scorze legnose. Alla sera tornava a far freddo.

“Posso essere una scheggia, se voglio e quando voglio”, si diceva.

Da qualche tempo, non sapeva come avesse iniziato, aveva preso a bere la notte. Fumava almeno dieci sigarette al giorno. E beveva whisky finché non finiva la bottiglia. Allora passava all’amaro. Sarebbe diventato alcolizzato? Aveva sempre giudicato male chi abusava dell’alcool. Ad esempio suo padre. Finiva bottiglie di grappa una dietro l’altra e prima beveva vino.

Faceva in modo che l’innamoramento durasse poco perché “quando una donna si innamora diventa pazza e quando si innamora un uomo diventa fesso”. Rifletteva su un possibile collegamento tra soffocare l’amore fin dai primi impulsi e il fatto di bere di più.

I suoi colleghi avevano comunque ragione: era necessario diventare più diplomatici, più propensi al compromesso nonostante l’ambiente di merda in cui tutti vivevano. Si diceva ogni giorno che chiunque al mondo possedeva una scheggia divina al proprio interno. E ci credeva, lo ripeteva guardando i raggi gialli e freschi del mattino, lo pensava vestendosi nella camera da letto. Poi usciva.

Poteva essere una scheggia a scrivere. Portare la gente dove voleva. Solo che non sempre voleva portare qualcuno da qualche parte. Lo stile è un fatto personale, l’importante è portare la gente sul fondo. Della storia o di se stessi.Lavorava per la tv ormai da anni. Non gli piaceva anche se ne godeva. Probabilmente era quello il suo vero mestiere. Ma doveva imparare a essere più diplomatico.

Ora che aveva piazzato qualche domanda nel lettore sul fatto che lui avesse un problema di alcolismo incipiente, un autolesionismo privato sul fatto di strozzare l’amore sul nascere, un brutto carattere riguardo i rapporti sociali e su come avrebbe risolto queste e altre questioni, poteva finire l’incipit.E tutti sarebbero arrivati fin qui.

Per ora.

Era una scheggia ma non sempre voleva portare qualcuno o qualcosa da qualche parte. Quando scriveva si firmava Nelson Corallo perché gli era parso un nome che evocava il mare e i pirati.”Andresti avanti a leggere? Sì, lo faresti, per ora è buono, è abbastanza buono”, si diceva.